All’indomani
del G20 di Pittsburgh
Un nuovo
quadro di potere nel mondo?
La crisi economico
finanziaria,
sebbene meno drammatica rispetto a quanto paventato l’anno scorso, continua
a far paura, e i governi di tutti i paesi non smettono di mettere in guardia
sulla necessità di rafforzare il quadro di cooperazione internazionale in campo
economico e monetario, indispensabile per tenere sotto controllo le sempre
possibili derive nazionaliste e protezioniste.
A questo proposito i leader del G20 a
Pittsburgh hanno ribadito l’importanza del
coordinamento mondiale per controllare l’andamento della situazione e hanno
individuato in questa formula cooperativa l’istanza di collaborazione internazionale in campo
economico di questo inizio secolo. Questo nuovo organismo comprende oltre ai
paesi del G8 anche l’Arabia Saudita, l’Australia, l’Argentina, il Brasile, la Cina, la
Corea del Sud, l’India, l’Indonesia, il Messico, il Sud Africa, la Turchia,
l’Unione europea. Il G8 comprendeva invece gli USA, il
Giappone, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, l’Italia, il Canada, la
Russia.
A Pittsburgh sono state fatte diverse
raccomandazioni tendenti a sviluppare una crescita economica più equilibrata:
da un lato per diminuire i deficit commerciali e di bilancio di diversi paesi e
dall’altro per chiedere in particolare a Cina, Germania e Giappone e ai paesi
esportatori di petrolio di stimolare le rispettive domande interne.
Da questo punto di vista il vertice
ha messo in luce un’inversione di rotta rispetto alla politica liberista del laissez faire a
livello mondiale degli ultimi anni, e gli Stati, soprattutto quelli che pesano
maggiormente sul piano economico, produttivo e
commerciale, sono intervenuti massic-ciamente per prevenire una catastrofe
economica. Basti ricordare che gli USA hanno varato in pochi mesi un piano di
700 miliardi di dollari e la Cina di quasi 400
miliardi di dollari in due anni.
Inoltre a Pittsburgh si è affermata
la volontà di combattere il protezionismo e di riprendere nel 2010 i negoziati
per il Doha Round e si è discusso della necessaria
riforma del Fondo Monetario Internazionale e della Banca mondiale, aumentando
la rappre-sentatività dei paesi emergenti di almeno il 5% nel FMI ed
accrescendo del 3% il loro diritto di voto nella Banca mondiale.
Sempre a Pittsburgh, per cercare di
tenere sotto controllo la finanza internazionale, si è deciso di creare
un’autorità di super-visione, il Financial Stability Board, e di ridurre
i premi dei grandi manager bancari. Per contro non è stato approntato alcun
piano comune contro la disoccupazione che resta molto alta.
Che cosa significa tutto ciò?
Innanzitutto è opportuno mettere in evidenza,
come ha fatto il Presidente della Banca Mondiale, Robert
Zoellick, che l’azione dei governi e degli Stati non
ha potuto fare a meno di prendere atto “del cambiamento nelle relazioni del
potere economico” che la crisi ha messo in luce.
Non è casuale il fatto che gli USA,
che con la loro politica finanziaria liberista e senza controlli hanno scatenato la
bolla speculativa all’origine dell’ultima crisi, siano al momento in forte
difficoltà. La fiducia nella ripresa della loro economia è ormai messa in
dubbio un po’ dappertutto e soprattutto viene
criticato il ruolo troppo rilevante del dollaro sia negli scambi internazionali
sia come moneta di riserva. C’è una diffusa volontà di fuggire dal dollaro o almeno di
proteggersi dal suo dominio, anche se tutti sanno che qualsiasi cambiamento
repentino della situazione monetaria potrebbe produrre danni e conseguenze
incalcolabili. Dopotutto più di 2/3 dei dollari USA emessi sono in circolazione
fuori dagli Stati Uniti.
A fronte di un’egemonia economica e
monetaria degli USA, che è ormai messa in discussione, aumenta il peso e
l’influenza della Cina, ormai inserita nei principali
snodi economici ed istituzionali mondiali, grazie alla sua enorme disponibilità
finanziaria e alla sua crescente credibilità politica. Basta prendere in
considerazione alcune delle ultime iniziative prese dalla
Cina, per rendersi conto di quanto siano cambiati i tempi rispetto
all’epoca dominata dalla politica di Washington, tenendo anche presente che
molte delle raccomandazioni adottate a Pittsburgh erano state preven-tivamente concordate tra
USA e Cina già nel luglio scorso: nella
primavera scorsa, la Cina ha proposto attraverso il presidente della Banca
Centrale Cinese la riforma del sistema monetario internazionale, con una moneta
di riserva internazionale “che sia
slegata dalle singole nazioni e che sia in grado di rimanere stabile a lungo,
rimuovendo così le attuali deficienze causate dall’uso del credito basato sulle
monete nazionali”; ha poi firmato accordi con la Russia per l’acquisto di gas e
la gestione di raffinerie, concedendole prestiti per 25 miliardi di dollari. Con la Russia, i
paesi arabi produttori di petrolio, il Giappone, il Brasile e la Francia, hanno iniziato a
prospettare il pagamento del petrolio a medio termine non più in dollari ma con
una moneta di conto basata su un paniere di monete (yuan,
yen, euro e oro e un’eventuale moneta dei paesi del golfo) (The Independent, 6 ottobre 2009). Si è poi offerta di acquistare 32
miliardi di diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale,
creando le premesse per accrescere la sua influenza nel Fondo; ha inoltre
continuato ad espandere la sua influenza economica e politica in Africa e in
America Latina a danno dell’Europa e degli USA.
In questo quadro appare evidente come
sia soprattutto il peso politico ed economico dei
paesi europei, singolarmente presi, a diminuire. Lo prova l’esigenza,
prospettata da molti, di trasferire più quote di tutti i ventisette paesi
dell’Unione europea, che insieme detengono il 32% delle quote del Fondo. Non a
caso si discute della possibilità di una rappresentanza unica dell’Unione in quanto tale in seno al Fondo. Ma a quali
politiche economiche, finanziarie, monetarie e fiscali continentali europee farebbe riferimento questa eventuale rappresentanza? Sarebbe infatti impensabile prevedere una rappresentanza unica
europea che rispondesse alla logica della ricerca del consenso tra ventisette
governi.
D’altra parte molti hanno
incominciato a far notare che il peso dei singoli paesi europei nel Fondo
Monetario Internazionale è comunque eccessivo se si
tiene conto che esso è calcolato tenendo conto del loro interscambio europeo,
cioè di un mercato considerato interno o esterno a seconda delle convenienze.
In definitiva, se gli USA alla fine
dovessero riuscire a ritrovare fiducia nei propri mezzi, scaricando l’onere di
finanziare il proprio debito sul resto del mondo, e a trovare un modus vivendi
con la Cina, sarebbe senza dubbio l’Europa, in assenza
di una Federazione europea e quindi di
una vera ed efficace politica unitaria, a dover pagare il conto più salato.
Anna Costa