Le elezioni in Afghanistan:
chi sarà il nuovo sindaco di Kabul?
In Afghanistan si
sono recentemente tenute le votazioni per eleggere il governo e il nuovo
Presidente. Per dare un’idea del valore di queste votazioni basti ricordare che
il Presidente, pur essendo teoricamente il Capo dello Stato, dalla fine del
regime talebano in poi è sempre stato considerato
come il sindaco di Kabul e nulla più. L’Afghanistan è infatti
un paese popolato da sette etnie diverse, di cui nessuna è maggioritaria, e
ciascuna parla una lingua diversa e fa riferimento a capi diversi tra loro e
soprattutto diversi dal Presidente dell’Afghanistan. La quasi
totalità della popolazione è analfabeta e non sa cosa sia la democrazia.
Il voto viene dato tendenzialmente in base all’etnia
del candidato, pasthun (l’etnia più popolosa, che
raggiunge il 38%) se il candidato è Karzai e tagiko o altro se il candidato è Abdullah
Abdullah. La popolazione che si reca alle urne non
raggiunge il 40% e le votazioni si sono potute svolgere solo in determinate
aree geografiche dove l’Isaf (la Forza di assistenza internazionale) controlla la situazione e
protegge i seggi. I talebani
infatti hanno pesantemente minacciato di punire chiunque andasse a
votare, dicendo alla popolazione che avrebbero tagliato il pollice che viene
usato per votare (dato che, essendo analfabeti, gli afgani votano intingendo il
pollice nell’inchiostro e stampando la propria impronta digitale sul nome del
candidato prescelto). Il voto, dunque, non rispetta nemmeno il territorio. Ma, soprattutto, il governo non ha potere e controllo su uno
Stato che si fatica a definir tale.
Una delle cause di
questa debolezza è, paradossalmente – dato che dovrebbero essere lì per
sostenere il rafforzamento delle istituzioni statali afgane –, proprio la
presenza dell’Isaf. Questa è costituita da
contingenti forniti da Italia, Usa, Francia, Germania, Spagna, Canada, Uk, Paesi Bassi, che si suddividono il controllo del paese
disponendo basi militari nei territori in cui è accertata la presenza dei jihadisti: i talebani, infatti,
non si trovano solo nella
terra di nessuno al confine tra Pakistan e Afghanistan, dove l’Enduring Force Of Freedom
statunitense prosegue con la guerra. Ma il popolo non si fida né di Al-Qaida né dei soldati dell’ Isaf, che, facilmente, vengono visti come “infedeli
oppressori”.
La ragione principale
della debolezza dello Stato afgano è però legata al
frazionamento della popolazione, che risponde ad una intricata e dispersa rete
di capi tribali, signori della guerra, mafiosi e narcotrafficanti
e che non ha contatti diretti con le istituzioni statali. La loya jirga,
l’assemblea tribale dove si riuniscono i capi delle tribù afgane,
è il vero organo esecutivo capace di agire e imporre le proprie scelte.
Ma allora, ci si chiede, perché gli
Stati Uniti e gli europei sacrificano soldati e denaro per un governo
fantoccio? Oggi i costi in termini umani e di spesa per la permanenza in
Afghanistan raggiungono livelli elevatissimi, eppure americani ed europei
ritengono di dover ancora aumentare il numero dei soldati da dispiegare. E come mai si continua a parlare di come Karzai
abbia truccato le elezioni o di come “eroicamente” siano morti alcuni soldati
italiani? Mentre si sposta l’attenzione sulle situazioni contingenti, pare che
ci si dimentichi di spiegare qual’è
la reale motivazione di questa missione. Non si menziona mai il fatto che
l’Afghanistan confina con i due paesi al centro delle tensioni nell’area
mediorientale, ovvero il Pakistan e l’Iran. Confina
inoltre con la Cina, grande potenza in fieri. La sua collocazione geografica spiega anche l’origine dei talebani, inventati dal Pakistan per avere una forza
terrorista da usare come minaccia e arma contro l’India. Non dimentichiamo poi
che fu la Russia ad armare il Pakistan, né il ruolo che hanno avuto gli USA nel
lanciare lo slogan della Jihad in funzione
antisovietica o nel sostenere i talebani al tempo
della loro prima conquista del paese.
Gli attori che
ruotano attorno a questo paese sono dunque molti e
l’interesse americano perseguito anche tramite l’Isaf
non è certo la democrazia in Afghanistan, bensì il dare una prova di forza di
fronte ai propri avversari storici. Il generale Mini
lo spiega chiaramente in un’intervista pubblicata da Limes,
in cui ricorda anche che è il Pakistan l’elemento centrale dell’intera
situazione. Qual è quindi il progetto Usa? Obama sosteneva in campagna elettorale che la guerra in
Afghanistan era la guerra “giusta” da contrapporre a quella
“sbagliata” in Iraq. Il progetto è quello di fare del paese una base solida per
il controllo dell’area, e a questo scopo sarebbe
necessario inviare altri diecimila soldati che si aggiungerebbero ai
sessantamila già presenti: ma la paura, per il Presidente americano, è quella
di diventare il responsabile di un secondo Vietnam, viste le difficoltà
obiettive di stanare i talebani tra centinaia di
chilometri di montagne.
Perché allora
l’Unione europea e i suoi Stati membri continuano ad essere totalmente passivi
rispetto alle decisioni americane e non prendono nessuna iniziativa?
La ragione è che la politica estera e l’esercito sono ancora nelle mani degli
Stati nazionali, deboli e del tutto inadeguati ad assumersi qualsiasi
responsabilità. I governi europei, quindi, litigano tra di
loro a proposito delle aree da controllare, e si comportano in modo incoerente,
parlando di ritiro e al tempo stesso inviando nuovi soldati. Sono sempre gli
americani che dettano la linea, e si può essere o no d’accordo sulle loro
scelte, ma quello che è certo è che, se gli europei non daranno
vita ad uno Stato federale dotato del potere di promuovere una politica
estera e di sicurezza, riprendendo sotto questo profilo l’esperienza che ha
portato alla nascita degli Stati Uniti d’America, non saranno mai in grado di
esprimere una volontà propria sulla scena internazionale, e la guerra in
Afghanistan ne è la dimostrazione più evidente.
Nelson Belloni